Nonostante l’arrivo della primavera (almeno in senso temporale) ritorniamo sul blog con un argomento decisamente invernale. Qualche mese fa, infatti, la Danimarca ha annunciato di aver presentato formalmente alla commissione ONU che si occupa dei confini marittimi un documento in cui il paese nordico reclama la propria sovranità su una zona del mare Artico adiacente al Polo Nord. Nel corso dell’ultimo anno anche il Canada e la Russia avevano sollevato rivendicazioni simili, in seguito alla scoperta di cospicui giacimenti sottomarini di gas e petrolio. Cosa sta succedendo? Come mai non vi è una suddivisione precisa dei confini marittimi? Proveremo in questo post a spiegare cosa dice il diritto internazionale marittimo sulla delimitazione dei mari e in che modo c’entra con la questione dell’Artico.
La piattaforma continentale questa sconosciuta.
Le diverse aree rivendicate dalle nazioni che si affacciano sull’Artico sono molto lontane dalle loro coste, come vengono dunque tracciati i confini tra gli stati in questo caso?
Secondo la Convenzione sul diritto del mare di Montego Bay – firmata tra gli altri anche da Danimarca, Russia e Canada – le acque territoriali di uno stato arrivano fino a 12 miglia dalla sua costa, esse sono in tutto e per tutto territorio dello stato, con l’eccezione che navi di stati stranieri vi possono transitare se non hanno intenzioni offensive. Fino a 24 miglia dalla sua costa poi uno Stato può esercitare la propria azione di polizia per prevenire violazioni riguardanti le sue norme in materia doganale, fiscale, sanitaria e di immigrazione. Lo stato può anche inseguirvi ed arrestare chi abbia commesso dei crimini sul suo territorio.
Le due zone sono ancora relativamente vicine alla costa, oltre le 24 miglia invece l’autorità dello stato diminuisce sensibilmente secondo quanto stabilito dalla Convenzione. Tra le acque territoriali e fino a 200 miglia dalla costa gli stati possono istituire una Zona economica esclusiva, in cui si riservano il diritto esclusivo di sfruttamento delle risorse naturali marine, ossia i pesci. Per quanto riguarda lo sfruttamento delle risorse sui fondali invece, gli stati ne hanno diritto esclusivo solamente sulla propria piattaforma continentale.
La piattaforma è, secondo i geologi, il prolungamento delle terre emerse, ovvero quella parte di fondali marini ancora relativamente bassi, prima che essi digradino rapidamente nelle aree oceaniche. Il primo paese a rivendicare il diritto di sfruttamento delle risorse dei fondali sulla propria piattaforma continentale sono stati gli Stati Uniti nel 1945 sotto l’amministrazione Truman (da poco succeduto a Franklin Roosevelt). Stabilire esattamente i margini della piattaforma dal punto di vista geologico è abbastanza difficile, inoltre la sua estensione varia notevolmente a seconda della conformazione della costa. Per questo motivo dal punto di vista legale la piattaforma può essere considerata tale fino a 200 miglia dalla costa, indipendentemente dalla conformazione del fondale. Se invece la piattaforma geologica si estende effettivamente oltre le 200 miglia, lo stato può rivendicarla solamente fino a 350 miglia dalla propria costa.
Ma cosa ci sarà mai di così importante?
Appare evidente come la definizione esatta dei limiti della piattaforma sia piuttosto difficile, per questo motivo gli stati che si affacciano sul mare artico si sono mossi per rafforzare le loro rivendicazioni territoriali. Danimarca, Russia e Canada rivendicano tutte la propria sovranità sull’area della dorsale di Lomonosov, dichiarandola parte delle proprie piattaforme continentali, in quanto ad esse collegata. La dorsale è piuttosto lunga e si estende per oltre 1800 km nel mare Artico tra la Siberia e la Groenlandia. Se fosse stabilito che essa appartiene alla piattaforma di uno degli stati in questione, esso acquisirebbe i diritti di sfruttamento sulle risorse minerarie sul fondo marino di un’ampia parte dell’Artico, in quanto la dorsale arriva ben oltre le 200 miglia dalle coste di Canda, Groenlandia e Russia.
Sono appunto i giacimenti di gas e petrolio recentemente indivduati che hanno scatenato la corsa alla rivendicazione di questa parte di artico. Diverse compagnie petrolifere hanno già avviato programmi esplorativi in alcune zone più a sud, tra di esse vi è anche l’Eni che ha un impianto di estrazione operativo vicino alle isole Svakbard. Questi impianti già in funzione si trovano però in zone non coperte permanentemente dai ghiacci, gli ipotetici giacimenti su cui i paesi artici hanno puntato gli occhi si troverebbero invece al di sotto della calotta polare. Come è comprensibile il loro sfruttamento non è affatto semplice, dovendo attraversare strati ghiaccio spessi decine di metri per raggiungerli. Ciò comporterebbe elevati costi di estrazione e il recente crollo del prezzo del petrolio ha messo in dubbio la convenienza di queste operazioni. Sia la norvegese Statoil che la russa Rosneft, infatti, dopo tanto clamore hanno sospeso le esplorazioni proprio perchè, con il prezzo del greggio così basso, l’estrazione da questi giacimenti non sarebbe conveniente.
Al petrolio e al gas si aggiungono anche considerazioni di carattere strategico. Con lo scioglimento dei ghiacci infatti le rotte commerciali che attraversano l’area (il famoso passaggio a nord-ovest) stanno diventando navigabili per periodi sempre più lunghi durante l’anno. La possibilità di costruire infrastrutture di supporto permetterebbe infatti un maggiore controllo su queste rotte. E’ in qust’ottica che la Russia ha deciso la riapertura di una base permanente nelle isole della nuova Siberia. Allo stesso modo alcuni militari e politici americani hanno richiesto maggiore attenzione da parte dell’amministrazione Obama sulla questione artica, alla viglia della presidenza americana del Consiglio Artico, il forum di discussione dei paesi che posseggono territori al di sopra del circolo polare.
Un conflitto congelato
La preoccupazione degli americani è di rimanere indietro rispetto agli altri paesi nell’affermare i propri diritti sulll’area artica. Tuttavia, ad oggi, il calo dei prezzi petroliferi ha bruscamente fatto perdere importanza al mare artico nelle agende dei governi coinvolti. Ciò non significa però che la questione sia risolta o che essa possa rimergere in un prossimo futuro, vuoi per un rialzo del prezzo del petrolio (che renderebbe di nuovo appetibili i giacimenti subacquei), vuoi per l’importanza delle rotte commerciali che passano dal circolo polare. Nel caso essa riprendesse, causerebbe inevitabilmente attriti politici tra le potenze in gioco, e la sua soluzione pacifica richiederebbe un notevole sforzo negoziale, considerata la difficoltà di marcare i confini marittimi nell’artico con la dovuta precisione. Si spera che la primavera non porti ad un disgelo del conflitto.