By U.S. Navy photo by Mass Communication Specialist 2nd Class Daniel Barker, via Wikimedia Commons

Migranti. Cosa si può fare?

Il naufragio di domenica scorsa nel mar Mediterraneo ha finalmente destato l’attenzione dei leader europei sul problema dei migranti che tentanto di raggiungere il nostro paese. In molti in questi mesi hanno accusato l’Europa di non fare abbastanza per evitare queste tragedie, lasciando l’Italia e gli altri paesi mediterranei a gestire l’emergenza da soli. Ma cosa potrebbe fare in realtà l’Unione Europea? Esistono delle soluzioni efficaci? Qui cercheremo brevemente di riassumere le proposte fino ad ora avanzate.

Deterrenza o accoglienza?

Una delle strategie più discusse è quella della deterrenza. La logica dietro di essa è che una politica della “linea dura” dovrebbe scoraggiare i migranti ad imbarcarsi. Un rimpatrio immediato dopo l’individuazione in mare renderebbe infatti il viaggio inutile, mentre l’assenza di un meccanismo di soccorso aumenterebbe grandemente i rischi. Questa è la logica implicita dietro all’operazione Triton, che ha limitato i pattugliamenti a 30 miglia dalla costa, diminuendo fortemente le probabilità per i migranti di essere soccorsi prima.

La stessa politica è stata messa in atto dagli Stati Uniti al confine con il Messico nel 1994, con il rafforzamento dei pattugliamenti nelle zone di attraversamento del confine. I risultati ottenuti sono però controversi: il numero di migranti è infatti più che raddoppiato nei sei anni successivi, per poi scendere solamente a partire dagli anni 2000. In molti hanno accusato il governo americano di aver semplicemente reso più pericoloso il viaggio costringendo i migranti a scegliere le vie più impervie attraverso il deserto e le zone montuose, e causando, di conseguenza, molte più vittime. Inoltre, più di uno studio ha dimostrato che la pericolosità del tragitto non ha scoraggiato affatto le persone a mettersi in viaggio.

Monumento ai migranti morti attraversando il confine tra Messico e USA, Photo by © Tomas Castelazo, www.tomascastelazo.com  via Wikimedia Commons

Monumento ai migranti morti attraversando il confine tra Messico e USA, Photo by © Tomas Castelazo, www.tomascastelazo.com  via Wikimedia Commons

Il blocco navale

Una delle soluzioni invocate da più parti e ritenuta di più veloce implementazione è un blocco navale delle coste libiche. Di fatto una prosecuzione di Mare Nostrum, spingendosi a ridosso delle coste libiche (quello che non sta facendo Triton), per intercettare i barconi e respingerli oppure trasportarli in Italia in sicurezza come avveniva durante Mare Nostrum. La stessa Unione Europea sembrerebbe, alla vigilia del vertice straordinario di giovedì, considerare l’avvio di un’operazione navale europea, ricalcando il modello già utilizzato per la missione anti-pirateria “Atalanta” nell’oceano Indiano.

L’Italia aveva già adottato una politica simile durante gli anni novanta per fermare l’immigrazione proveniente dall’Albania, l’operazione Bandiere bianche. Questa aveva però dato luogo a numerose critiche a causa dei respingimenti delle navi dei migranti, soprattutto in seguito all’incidente della corvetta Sibilla che nel 1997 speronò un barcone nel tentativo di fermarlo, causando la morte di 108 migranti.

La corvetta Sibilla. Photo by Eugenio Castillo, CC BY-SA 3.0

La corvetta Sibilla. Photo by Eugenio Castillo, CC BY-SA 3.0

Ancora durante il regime di Gheddafi molti barconi giunti nelle nostre acque territoriali furono riconsegnati alla Libia, secondo l’accordo bilaterale allora in vigore. Proprio a causa di questi episodi l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani nel 2012 per aver ignorato i possibili richiedenti asilo presenti su quelle imbarcazioni e averli riconsegnati ad un paese che non garantisce loro alcun diritto non avendo aderito alla convenzione di Ginevra.

In uno scenario molto simile a quello Mediterraneo, l’Australia sta tentando di arginare l’immigrazione proveniente dall’Indonesia con una politica similare. L’operazione Sovereign Borders, lanciata nel 2013, prevede il pattugliamento delle coste Australiane da parte della marina militare per intercettare i barconi dei migranti. Le imbarcazioni sono o respinte e riportate verso i porti di provenienza oppure trainate al centro di identificazione dell’Isola di Natale per valutare le richieste di asilo. al tempo stesso il governo ha promosso una campagna di informazione nei paesi di origine dei migranti nel tentativo di metterli al corrente dei rischi del viaggio. Secondo i dati diffusi da Canberra il risultato è stata una netta diminuzione degli arrivi illegali, anche se in molti hanno accusato il governo della poca trasparenza sull’operazione, in particolare riguardo ai respingimenti. Non si sa infatti quanti richiedenti asilo potrebbero essere stati respinti senza aver esaminato le loro richieste. Sono inoltre state criticate le condizioni dei migranti nei centri di detenzione sulle isole dell’Indiano, difficili da raggiungere per giornalisti e Ong.

La campagna australiana per scoraggiare i migranti

La campagna australiana per scoraggiare i migranti

L’avvio e la gestione di una simile strategia non è quindi per nulla facile. Secondo il diritto internazionale poi, un blocco navale costituisce un’azione di guerra e richiederebbe l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e l’assenso del governo libico.

La distruzione dei barconi.

Un’alternativa, anch’essa già adottata negli anni novanta con l’Albania, consiste nel sequestrare e distruggere le imbarcazioni utilizzate dagli scafisti nei paesi di partenza. In Albania questa politica venne portata avanti in una serie di operazioni: l’operazione “Pellicano”, l’operazione “Alba”, e la “Missione di polizia interforze”. Tutte queste erano state condotte in collaborazione con la polizia e le autorità albanesi, le missioni prevedevano anche la fornitura di mezzi, materiali e assistenza tecnica alle forse dell’ordine albanesi, in modo tale da poter proseguire l’individuazione degli scafisti autonomamente.

Di fatto le missioni riuscirono a ridurre il flusso di migranti ma ci vollero degli anni e soprattutto furono accompagnate da politiche di stabilizzazione che aiutarono il paese a risollevarsi dalla crisi politica ed economica.

Una sua replica in Libia risulterebbe molto più difficile, in quanto la collaborazione con le autorità locali sarebbe pressoché impossibile in questo momento, esistendo due diversi governi transitori con pochissimo controllo effettivo sul territorio libico. Anche trovando una ccordo con le autorità locali il rischio sarebbe comunque molto maggiore rispetto all’Albania, data la situazione di instabilità del paese.

Profughi albanesi sulla nave Flora a Brindisi, 1991. Photo by Luca Turi, Wikimedia Commons.

Profughi albanesi sulla nave Flora a Brindisi, 1991. Photo by Luca Turi, Wikimedia Commons.

La cooperazione giudiziaria e il riconoscimento sul luogo.

L’Italia ha in precedenza gestito l’arrivo dei migranti tramite accordi di cooperazione giudiziaria per perseguire gli scafisti direttamente nei paesi di origine. E’ il caso della Tunisia, con cui il governo italiano ha siglato una serie di accordi (il primo nel 1998), rinnovati ancora recentemente con il nuovo governo succeduto al regime di Ben Ali. Viene generalmente riconosciuto l’esito positivo di tali accordi anche dagli osservatori indipendenti, ma una loro implementazione con la Libia è, di nuovo, impossibile, a causa dell’assenza di un governo in grado di esercitare la sua autorità sul territorio.

Un’altra soluzione prospettata è l’istituzione di strutture di riconoscimento sui territori di partenza dei migranti, o direttamente nei loro paesi d’origine, per svolgere le procedure ora svolte nei centri di identificazione ed espulsione in Italia e valutare le richieste di asilo. Sebbene questa opzione eviterebbe i pericolosi viaggi in mare e limiterebbe gli arrivi illegali, ancora una volta, risulta difficilmente realizzabile in un paese come la Libia dove non è possibile operare in condizioni di sicurezza. Anche istituendo tali uffici nei paesi di origine (quelli dell’Africa subsahariana principalmente), rimarrebbe il problema del viaggio e della permanenza degli applicanti nei campi profughi.

Allora non c’è una soluzione?

E’ ovvio che una soluzione definitiva al problema passa per forza da una stabilizzazione della situazione in Libia, cosa però tutt’altro che facile da realizzare. Nel frattempo bisogna scegliere quale politica adottare nei confronti dei barconi decidendo se la politica di deterrenza possa funzionare o se quella di accoglienza sia sostenibile.

A tal proposito l’ISPI ha pubblicato un’interessante statistica sul numero di sbarchi e di vittime negli ultimi mesi cercando di analizzare le conseguenze del passaggio da Mare Nostrum a Triton. Con il passaggio all’operazione europea il numero di sbarchi si è fortemente ridotto, tuttavia il rapporto delle vittime rispetto ai migranti sbarcati è quasi triplicato, passando da una media mensile di morti ogni cento migranti sbarcati dell’1,9 al 6,8.

Fonte: ISPI

Fonte: ISPI

Benché vi siano molti fattori che possono influire sulla pericolosità del viaggio (non ultimo quello delle condizioni meteorologiche invernali), il dato dimostra come una politica di deterrenza, o comunque di soccorso meno attivo qual’è Triton in confronto a Mare Nostrum, può effettivamente contribuire a ridurre gli sbarchi ma presenta un trade-off in termini di vite umane. Una conseguenza di cui non si può non tenere conto.